Le montagne e le aree interne italiane sembrano lontane da tutto. Lontane dalle città, dalle grandi decisioni, dal futuro che corre veloce. Eppure è proprio lì, nei luoghi considerati marginali, che si gioca una parte decisiva del destino del Paese.
Questo libro racconta una frattura che attraversa comunità, imprese, famiglie: nostalgia contro fiducia. La nostalgia protegge, rassicura, consola. Ma quando diventa orizzonte politico e sociale, congela i territori nel mito di ciò che erano. La fiducia, invece, apre. È rischiosa, imperfetta, ma libera energie: produce innovazione, attira giovani, mette in moto economie e idee.
Attraverso storie reali, dati, analisi e testimonianze, Il futuro ad alta quota mostra come i territori più fragili possano diventare i più coraggiosi. Come dietro i problemi si nascondano possibilità. E come, contro ogni previsione, dalle periferie italiane possa alzarsi una nuova visione di Paese.
Non è un libro sulla montagna. È un libro su ciò che la montagna ci dice: che il futuro non è garantito e non arriva da solo. Va costruito, insieme. A partire dai luoghi che per troppo tempo abbiamo dato per scontati.
Perché c’è un’Italia che non fa rumore. Un’Italia che non appare nei talk show, che non detta l’agenda politica, che non minaccia nessuno con la propria forza elettorale. Un’Italia fatta di montagne, valli, borghi, comunità piccole, città medie, province, orizzonti. Luoghi che resistono, che soffrono, che non si arrendono. E che, proprio per questo, non smettono di cercare una strada.
Leggere questo libro significa entrare in quella tensione. Capire perché alcuni territori arretrano mentre altri ripartono. Scoprire che non è questione di altitudine, né di distanza, né di sfortuna geografica. È questione di futuro. Di come lo immaginiamo. Di come lo raccontiamo. Di quanto crediamo sia ancora possibile.
Si legge per capire la nuova frattura politica che attraversa territori e comunità, quella tra nostalgia e fiducia.
Si legge per vedere le montagne con occhi nuovi: non più come cartolina, non più come destino tracciato, ma come una frontiera dove si può ancora inventare. Una frontiera che obbliga a pensare in modo diverso, più essenziale, più responsabile.
Si legge perché la vera domanda non è che futuro avranno i territori marginali, ma: che futuro avrà un Paese che rinuncia alla sua parte più fragile?
Infine, si legge per una ragione semplice e personale: perché questo libro dà voce a chi spesso non ce l’ha. E perché, in un tempo che sembra dominato dal declino, ci ricorda che esistono ancora luoghi dove il futuro può attecchire. A patto di volerlo costruire.